L’inconscio ha una sua biologia? In che modo il pensiero influenza i processi fisiologici e patologici del corpo umano? E ancora, il pensiero (sia “superficiale” che “profondo”), può influenzare il nostro DNA?
Porre queste domande ad un biologo, profondamente intriso di Darwinismo stretto, potrebbe non essere una buona idea.
La ricerca degli ultimi decenni ha cercato conferma (o meglio, non è riuscita a falsificare Popperianamente parlando), l’idea iniziale alla base del libro “L’origine delle specie”, pubblicato nel 1859 (quasi trent’anni dopo il pioneristico viaggio sul “Beagle” del 1830). Le specie evolvono grazie ad adattamenti casuali all’ambiente, secondo il principio della selezione naturale, una selezione che premia il più adatto, l’individuo maggiormente in grado di rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente. Gli adattamenti casuali si depositerebbero nella progenie, fissandoli in un piccolo gene che codifica per una proteina alla base di un carattere più o meno adattivo.
La teoria di Darwin ebbe la meglio sul suo storico concorrente, Jean-baptiste de Lamark (1744-1829), il quale affermava che: “la funzione crea l’organo”. Quest’ultimo sosteneva infatti che l’adattamento all’ambiente fosse mediato da processi attivi, in grado di modificare il fenotipo (e si direbbe oggi, a ritroso, il genotipo) dell’organismo coinvolto, trasmettendo poi gli adattamenti (in modo cumulativo) alle generazioni successive.
Per decenni la bontà della teoria di Darwin è stata alla base del pensiero di biologi e scienziati che si occupano di vita in genere, nonché del pensiero comune. Queste conoscenze sono state perpetuate per decenni dai libri di scuola e dal sistema educativo tradizionale, divenendo “terreno comune” dell’umanità.
Oltre a questi principi la biologia moderna ha assegnato al nucleo della cellula il ruolo di “cervello”, rendendo possibile una logica deduzione: ”se il nucleo della cellula è il cervello della cellula, significa che è il nucleo – ed il suo contenuto – a guidare il corpo della cellula, a deciderne il comportamento etc…
Tuttavia, recenti studi hanno proposto teorie alternative.
Poniamo ad esempio il caso del dott. Bruce Lipton. Egli ha proposto di mettere in atto un paragone fra il cervello di un essere complesso ed il nucleo della cellula, constatando che se si rimuovesse il cervello da un qualsiasi essere vivente, l’organismo non sopravviverebbe che per pochissimi istanti senza encefalo, mentre la cellula continuerebbe a vivere ed a comportarsi normalmente per un periodo ben più lungo. A questi esperimenti hanno fatto seguito altre intuizioni che assegnano alla membrana cellulare il ruolo di cervello dell’unità biologica. Di fatto la membrana cellulare rappresenta l’organo che presiede alla percezione dell’ambiente (attraverso sostanze chimiche che si legano ai suo recettori e che possono passare nei suoi canali), e che, proprio attraverso questa percezione in senso lato, regola l’espressione dei geni contenuti all’interno del nucleo, richiedendo o meno l’espressione di geni per reagire all’ambiente. Ma come è possibile che i 25.000 geni individuati dal progetto “Genoma” (terminato nell’anno 2000) possano codificare per le circa 140.000 proteine individuate nel corpo umano?
Lipton afferma che “non ci siamo con i numeri” e che “…con il controllo Epigenetico ogni gene può essere utilizzato per codificare fino a 2000 diverse proteine”.
Il controllo epigenetico è il controllo che l’ambiente esercita sul nostro corpo, influenzandone la salute o la malattia fino alla composizione del corpo stesso. Ma per gli esseri umani, cosa costituisce “ambiente”? Per creature complesse come l’essere umano, l’ambiente è costituito da elementi altrettanto complessi. Oltre agli aspetti materiali (sostanze chimiche, temperatura etc.), nella nostra specie entrano in gioco fattori legati alla nostra mente: cosa distingue un pericolo reale da uno solo immaginato, a livello autonomico? Nulla. Ogni percezione di pericolo e la sensazione di paura vengono trattate allo stesso modo: attivano le sostanze chimiche che preparano il corpo alla risposta (tipicamente fight or flight)- l’adrenalina ed il cortisolo.
Citando un personaggio interpretato da Will Smith in “After Earth”: “Il pericolo è reale, ma la paura è una scelta”. Tornando indietro nel tempo, e rifacendoci a fonti ben più antiche e di cultura orientale, il Buddha stesso affermava: “Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è una delle opzioni”. Queste affermazioni ci riportano al ruolo fondamentale delle percezioni e della capacità di affrontare la vita (definita in psicologia capacità di coping – Lazarus & Folkman, 1985), restituendo all’essere umano la capacità di scegliere, ad un punto tale da influenzare in modo massiccio l’espressione dei geni, e affidando così alle credenze un fattore protettivo o precipitante nei confronti della malattia (e della salute, n.d.r., ).
In questa nuova prospettiva viene ad essere capovolta la piramide decisionale cellulare e personale, da “automi genetici” (completamente controllati dai geni presenti o meno nelle nostre cellule, destinati ad essere ammalati perché la malattia ha “un’alta familiarità”), ad individui dotati di un ruolo fondamentale nella propria vita, in termini di salute e longevità.
Il nostro cervello è diventato nel tempo una forma “iper-specializzata” di membrana cellulare (si pensi ad esempio alla membrana cellulare delle cellule nervose: essa è dotata di “propaggini” in entrata ed in uscita -dendriti ed assoni- volte alla comunicazione chimica ed elettrica fra cellule). Se dovessimo compiere una serie di paragoni, potremmo procedere in questo modo: non è forse vero che la membrana cellulare costituisce la “pelle” della cellula, la parte a contatto con l’ambiente? Non è altrettanto vero che la nostra pelle è a contatto con l’ambiente? Per concludere il paragone, è noto ai biologi ed ai medici che la pelle ed il sistema nervoso umano originano entrambi dallo stesso foglietto embrionale, rendendo pelle, cervello e tessuto nervoso parenti strettissimi. Questi “fratelli” hanno tutti il compito di scandagliare, interpretare e fornire informazioni al soma per gestire il mondo che incontrano.
Le implicazioni di queste scoperte portano alla revisione di diversi assunti che riguardano la gestione della propria salute, come ad esempio il fatto che sia possibile spiegare l’esistenza dell’effetto placebo in termini di credenze e di espressione genica (così come, al suo opposto, è possibile spiegare l’effetto nocebo).
Ma come è possibile utilizzare a nostro vantaggio queste scoperte?
Lo stesso Dott. Lipton afferma che è possibile, attraverso un lavoro mirato, acquisire nuove percezioni di come funziona la vita. Questo lavoro sarebbe in grado di modificare l’assetto inconscio della nostra personalità (che Lipton ed alcuni neuroscienziati cognitivi ritengono essere alla base del 95% del comportamento di ogni individuo, mentre solo il 5% sarebbe sotto il controllo cosciente), “sovrascrivendo” quei programmi inconsci appresi durante gli anni della nostra formazione, in particolar modo quelli inscritti in un tipo di memoria implicita e quindi poco modificabile attraverso processi espliciti (quelli per intenderci, legati alla parola scritta o parlata n.d.r.).
Una delle vie principali per ottenere questo tipo di risultati, potrebbe essere quello di intraprendere un percorso specificamente pensato per modificare gli aspetti inconsci della vita, soprattutto quelli che possono creare un notevole disagio psichico, quei “programmi” che limitano in modo sistematico l’accettazione di Sé, il riconoscimento dei propri limiti, della propria finitezza ma anche delle proprie risorse e potenzialità. Questo tipo di interventi fanno tipicamente parte di un percorso psicoterapeutico, soprattutto di tipo introspettivo profondo ( psicoanalitico). Forse, con queste premesse, sarà accessibile ad ognuno di noi la possibilità di vivere una vita più soddisfacente, sana e realizzata nelle sue piene potenzialità.